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Luca 9,18-36

 

Manifestazione di Gesù, sequela e trasfigurazione 

 

di fra Lorenzo Ficano

Ogni anno nella seconda domenica di Quaresima, e poi il 6 agosto, la Chiesa ci fa celebrare l’evento della Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia lega sempre la Passione di Gesù alla sua gloria. Questo legame tra gloria e Passione avviene solo attraverso il cammino della Croce. Nella vita di Gesù è stato così, lo è anche nella nostra vita.
L’evangelista Luca, lui solo, ci rivela che «Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, conversavano con Gesù e parlavano del suo esodo che doveva compiersi in Gerusalemme», parlavano dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù in obbedienza alle Scritture avrebbe vissuto nella piena fedeltà a colui che lo aveva mandato nel mondo. Luca racconta che Gesù, subito dopo aver ricevuto la confessione di Pietro, che lo ha proclamato con fede Messia di Dio, ha fatto il primo annuncio della necessità della sua Passione, della sua condanna, della sua morte e Risurrezione (cfr. Lc 9,18-22). E proprio dopo questa rivelazione, dopo questi discorsi, «circa otto giorni dopo», ecco l’evento della Trasfigurazione, evento che ha una funzione concreta e precisa: attestare che Gesù è veramente il Messia, come lo aveva proclamato Pietro, ma attestare anche che la sua messianicità, la sua gloria contiene la sua Passione e la sua morte.
Gesù aveva annunciato la venuta del Regno di Dio, aveva annunciato anche che alcuni tra i suoi discepoli avrebbero visto il Regno di Dio prima di morire (cfr. Lc 9,27). Gesù prende con sé tre dei suoi discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo, e sale sul monte per pregare con loro, non pregare da solo, pregare con loro, per trovare luce sul cammino che lo attende. Ed ecco, durante la preghiera, la manifestazione della gloria di Dio nella sua carne, nella sua persona: accade una trasformazione del suo volto che diventa splendente, una trasformazione delle sue vesti che diventano sfolgoranti. Gesù è visto e contemplato nella sua gloria, nel suo legame mai spezzato con il Padre, con Dio. Si tratta, in realtà, di un evento che non ha riguardato solo gli occhi, ma anche il cuore dei tre discepoli. Ciò che è stato trasfigurato è lo sguardo dei tre, i quali hanno visto per grazia ciò che non sapevano vedere nella quotidianità della vita con Gesù. A loro è stata data la facoltà di vedere il Cristo nella sua realtà più profonda: quella di Figlio di Dio, realtà che restava nascosta in tutta la vicenda terrena di Gesù.
Questa esperienza di gloria appare come una rivelazione non solo per i discepoli, ma anche per Gesù. Così il racconto di questo evento ci vuol dire che per affrontare la prova, la tribolazione, non è vero che occorre essere esperti in sofferenza. Occorre semplicemente avere visto la luce: averla vista nella fede, non con gli occhi carnali. Gesù, dunque, all’inizio del viaggio verso Gerusalemme riceve dal Padre quella luce necessaria per percorrere il cammino, anche nella tenebra della sofferenza e della morte.
Per questo, in quella luce che Dio dona a Gesù e ai discepoli appaiono Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, le Sante Scritture contenenti la Parola di Dio, quale conferma per il cammino di Gesù e luce per i discepoli. Mosè ed Elia dicono la necessità dell’esodo di Gesù.
Ma se il discepolo ha visto la luce di Cristo, allora è equipaggiato alla lotta spirituale. I discepoli hanno visto la gloria di Gesù sul Tabor perché sono restati in preghiera; non hanno invece saputo contemplare Gesù sul monte degli Ulivi e seguirlo al Golgota perché quella notte non sapevano pregare. Luca scrive che in entrambe le situazioni i discepoli erano oppressi dal sonno (cfr. Lc 9,32; 22,45), ma sul Tabor si tennero ben svegli per pregare e videro la luce, la gloria di Gesù. Sul monte degli Ulivi, al contrario, non riuscirono a vegliare, nonostante Gesù li avesse chiamati a pregare con lui, e così decisero l’interruzione della loro sequela, la fuga, il tradimento e il rinnegamento del cammino percorso e della loro esperienza di luce. Non ricordavano l’esperienza del Tabor, non la ricordavano e non potevano ricordarla, perché non riuscivano a restare in preghiera.
Se il cristiano non prega, se non si ascolta la Parola di Dio, si ascolta la propria voce e se stessi. Si pensa di dover determinare se stessi senza tenere conto né del Signore né degli altri, decidendo i criteri delle proprie scelte e pensando soltanto alla propria realizzazione. Allora ci si mette su una strada che promette di non far incontrare la sofferenza, una strada in cui, secondo le parole di Gesù, si vuole riconoscere solo se stessi, e così si finisce per perdere la vita (cfr. Lc 9,23-24).
La vita cristiana chiede a tutti di vivere in Alleanza: nell’Alleanza del matrimonio, nell’Alleanza della comunità, nell’Alleanza di Dio. Non dovremmo dimenticare la luce di cui abbiamo fatto esperienza nel Battesimo, nella chiamata e nel giorno in cui davanti alla Chiesa abbiamo chiamato Dio a testimone e abbiamo dato una parola nella fedeltà matrimoniale o nella fedeltà di una comunità religiosa. Non dimentichiamolo, perché questo nostro celebrare l’Alleanza è celebrare la comunione con Dio che non viene meno, se noi restiamo fedeli e continuiamo a dire: «Mio Dio, mio Signore, mio Gesù» (cfr. Gv 20,28).

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