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Luca 9,18-36

 

Manifestazione di Gesù, sequela e trasfigurazione 

 

di fra Lorenzo Ficano

Ogni anno nella seconda domenica di Quaresima, e poi il 6 agosto, la Chiesa ci fa celebrare l’evento della Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia lega sempre la Passione di Gesù alla sua gloria. Questo legame tra gloria e Passione avviene solo attraverso il cammino della Croce. Nella vita di Gesù è stato così, lo è anche nella nostra vita.
L’evangelista Luca, lui solo, ci rivela che «Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, conversavano con Gesù e parlavano del suo esodo che doveva compiersi in Gerusalemme», parlavano dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù in obbedienza alle Scritture avrebbe vissuto nella piena fedeltà a colui che lo aveva mandato nel mondo. Luca racconta che Gesù, subito dopo aver ricevuto la confessione di Pietro, che lo ha proclamato con fede Messia di Dio, ha fatto il primo annuncio della necessità della sua Passione, della sua condanna, della sua morte e Risurrezione (cfr. Lc 9,18-22). E proprio dopo questa rivelazione, dopo questi discorsi, «circa otto giorni dopo», ecco l’evento della Trasfigurazione, evento che ha una funzione concreta e precisa: attestare che Gesù è veramente il Messia, come lo aveva proclamato Pietro, ma attestare anche che la sua messianicità, la sua gloria contiene la sua Passione e la sua morte.
Gesù aveva annunciato la venuta del Regno di Dio, aveva annunciato anche che alcuni tra i suoi discepoli avrebbero visto il Regno di Dio prima di morire (cfr. Lc 9,27). Gesù prende con sé tre dei suoi discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo, e sale sul monte per pregare con loro, non pregare da solo, pregare con loro, per trovare luce sul cammino che lo attende. Ed ecco, durante la preghiera, la manifestazione della gloria di Dio nella sua carne, nella sua persona: accade una trasformazione del suo volto che diventa splendente, una trasformazione delle sue vesti che diventano sfolgoranti. Gesù è visto e contemplato nella sua gloria, nel suo legame mai spezzato con il Padre, con Dio. Si tratta, in realtà, di un evento che non ha riguardato solo gli occhi, ma anche il cuore dei tre discepoli. Ciò che è stato trasfigurato è lo sguardo dei tre, i quali hanno visto per grazia ciò che non sapevano vedere nella quotidianità della vita con Gesù. A loro è stata data la facoltà di vedere il Cristo nella sua realtà più profonda: quella di Figlio di Dio, realtà che restava nascosta in tutta la vicenda terrena di Gesù.
Questa esperienza di gloria appare come una rivelazione non solo per i discepoli, ma anche per Gesù. Così il racconto di questo evento ci vuol dire che per affrontare la prova, la tribolazione, non è vero che occorre essere esperti in sofferenza. Occorre semplicemente avere visto la luce: averla vista nella fede, non con gli occhi carnali. Gesù, dunque, all’inizio del viaggio verso Gerusalemme riceve dal Padre quella luce necessaria per percorrere il cammino, anche nella tenebra della sofferenza e della morte.
Per questo, in quella luce che Dio dona a Gesù e ai discepoli appaiono Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, le Sante Scritture contenenti la Parola di Dio, quale conferma per il cammino di Gesù e luce per i discepoli. Mosè ed Elia dicono la necessità dell’esodo di Gesù.
Ma se il discepolo ha visto la luce di Cristo, allora è equipaggiato alla lotta spirituale. I discepoli hanno visto la gloria di Gesù sul Tabor perché sono restati in preghiera; non hanno invece saputo contemplare Gesù sul monte degli Ulivi e seguirlo al Golgota perché quella notte non sapevano pregare. Luca scrive che in entrambe le situazioni i discepoli erano oppressi dal sonno (cfr. Lc 9,32; 22,45), ma sul Tabor si tennero ben svegli per pregare e videro la luce, la gloria di Gesù. Sul monte degli Ulivi, al contrario, non riuscirono a vegliare, nonostante Gesù li avesse chiamati a pregare con lui, e così decisero l’interruzione della loro sequela, la fuga, il tradimento e il rinnegamento del cammino percorso e della loro esperienza di luce. Non ricordavano l’esperienza del Tabor, non la ricordavano e non potevano ricordarla, perché non riuscivano a restare in preghiera.
Se il cristiano non prega, se non si ascolta la Parola di Dio, si ascolta la propria voce e se stessi. Si pensa di dover determinare se stessi senza tenere conto né del Signore né degli altri, decidendo i criteri delle proprie scelte e pensando soltanto alla propria realizzazione. Allora ci si mette su una strada che promette di non far incontrare la sofferenza, una strada in cui, secondo le parole di Gesù, si vuole riconoscere solo se stessi, e così si finisce per perdere la vita (cfr. Lc 9,23-24).
La vita cristiana chiede a tutti di vivere in Alleanza: nell’Alleanza del matrimonio, nell’Alleanza della comunità, nell’Alleanza di Dio. Non dovremmo dimenticare la luce di cui abbiamo fatto esperienza nel Battesimo, nella chiamata e nel giorno in cui davanti alla Chiesa abbiamo chiamato Dio a testimone e abbiamo dato una parola nella fedeltà matrimoniale o nella fedeltà di una comunità religiosa. Non dimentichiamolo, perché questo nostro celebrare l’Alleanza è celebrare la comunione con Dio che non viene meno, se noi restiamo fedeli e continuiamo a dire: «Mio Dio, mio Signore, mio Gesù» (cfr. Gv 20,28).

 

Luca 9,1-17

 

Missione apostolica

 

di Anna Rita Capasso

Il contesto del nostro brano evangelico è caratterizzato dalla missione di Gesù nei villaggi della Galilea e dall’invio dei dodici ad aiutarlo (9,1-6). L'evangelista segue una linea di conferimento: chiamata, investitura, invio, in un solco di continuità tra la missione di Gesù e quella dei dodici. Egli affida ai suoi discepoli le sue stesse prerogative messianiche: realizzare nella storia i segni concreti della venuta del Regno e rivolgersi alle “pecore perdute della casa d’Israele”; annunciando che il “regno dei cieli è vicino” . Nella predicazione di Gesù, la venuta del regno di Dio indica che, inviando nel mondo il suo Figlio, Dio ha deciso, per così dire, di prendere in mano di persona le sorti del mondo, di compromettersi con esso, di agire dal suo interno. L’aspetto nuovo ed esclusivo del messaggio di Gesù, si rivela nella storia come il suo stesso Signore, come il Dio vivente. Da qui scaturisce quel senso di urgenza che traspare da tutte le parabole di Gesù, specialmente le cosiddette “parabole del regno. È scoccata l’ora decisiva della storia, ora è il momento di prendere la decisione che salva; il banchetto è pronto: rifiutarsi di entrare perché si è appena preso moglie o comprato un paio di buoi o per altro motivo, significa esserne esclusi per sempre e vedere il proprio posto preso da altri. Ecco allora il richiamo alla sobrietà, e la fiduciosa libertà dei missionari da ogni altra preoccupazione.
Nei versetti seguenti ci viene presentata una folla bisognosa, affamata. Esse bramano la presenza di Gesù, la sua persona, perché con le sue parole e le sue azioni egli è il vero cibo capace di saziare la fame di ogni uomo. Ed ecco che Gesù accetta di farsi prossimo a quanti sono nel bisogno: «accoglie le folle, annuncia loro il Regno di Dio e guarisce quanti necessitano di cure». Ben presto giunge la sera e i Dodici – consapevoli della loro povertà: “abbiamo solo cinque pani e due pasci!” – si rivolgono a Gesù, chiedendogli di congedare le numerose persone che lo seguono, affinché, abbandonando quel luogo deserto, possano recarsi nei villaggi vicini per trovare cibo e alloggio. Ma il loro Maestro, che ha appena accolto le folle, compiendo tutto ciò che era in suo potere per donare loro la vita, non accetta il loro invito e li sollecita con un preciso comando:
"Date loro voi stessi da mangiare" ( v.13). E’ un comando contro il buon senso, la razionalità, dato che i discepoli hanno appena manifestato a Gesù che la loro povertà è un impedimento a fare quanto richiesto; ma Gesù proprio in quella povertà scorge la spazio necessario del dono, la condizione in cui Dio può mostrare la sua misericordia e la sua benedizione.
Di fronte all’ampiezza della necessità (v.14 “C'erano infatti circa cinquemila uomini") essi si trovano del tutto inadeguati poiché possono contare solo su cinque pani e due pesci.
Ma sono loro che devono risolvere il problema e l'unica cosa che viene loro in mente è andare a comprare pane. Ma non è quello che intende Gesù: "Egli disse ai discepoli: Fateli sedere per gruppi di cinquanta. Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti" . Questo dividere la folla in piccoli gruppi sembra che preluda, o che voglia indicare, le comunità cristiane che si trovano insieme per Celebrare la cena del Signore, il pasto del Signore.
"Fateli sedere per gruppi di cinquanta" e i discepoli obbediscono..
"Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li diede ai suoi discepoli…" , questo versetto fa risaltare la lettura eucaristica che Luca fa della benedizione e della distribuzione dei pani, accentuando la corrispondenza col racconto dell’ultima cena del Signore narrata da lui stesso al cap. 22,19-20 dove vuol sottolineare il dono che egli farà di se stesso ai discepoli: “Questo è il mio corpo che è per voi”. I verbi evidenziati da Luca: “prese il pane”, “rese grazie”(in greco eucharistò da cui «eucaristia»), “lo spezzò", sono termini che esprimono e realizzano il dono totale di Gesù per noi nei segni del pane e del vino. Ciò significa che non possiamo disgiungere il dono del “Pane di vita” dalla passione, morte e risurrezione, il banchetto conviviale dal banchetto sacrificale. La celebrazione eucaristica è banchetto, è convivialità, ma resta sempre banchetto sacrificale, mistero pasquale. È questo mistero pasquale che i discepoli sono chiamati a vivere; infatti, a loro è chiesto di distribuire nella misura in cui la distribuzione dà ciò che è dato a loro. Il Signore ci ha costituito destinatari del dono. Quanto più siamo nutriti da lui, tanto più siamo chiamati a dare quanto ci è stato dato.
Come conclusione del racconto Luca riprende il motivo marciano della sazietà di coloro che avevano mangiato (v. 17). La sazietà è un motivo ricorrente nell’AT (cf. Es 16,8.12; 2Re 4,44; Sal 37,19; 132,15), ma nel presente contesto assume un significato messianico ed ecclesiologico: è il Messia che negli ultimi tempi offre la salvezza in modo pieno è la anticipa non solo in questa circostanza, ma anche nella Cena, di cui il miracolo è una prefigurazione. Nelle dodici ceste di pezzi avanzati è simboleggiato il popolo di Israele, al quale Gesù offre per primo la salvezza.

Luca 7,1-17

 

Il centurione di Cafarnao e risurrezione del figlio della vedova di Nain 

 

di Carmela Gelsomino Drago

Il miracolo è un intervento salvifico di Dio che continua a "visitare il suo popolo" (7,16), è un segno di quella salvezza universale, totale e definitiva che sarà donata all'umanità.
"Un grande profeta è sorto tra noi", esclama la folla alla risurrezione del giovane di Naim (7,16). Gesù stesso nel discorso inaugurale a Nazaret (4,17-21) e nella risposta agli inviati del Battista (7,22) afferma di essere venuto a realizzare quanto Isaia (61,1-2;35, altri testi) aveva predetto circa il lieto annuncio che sarebbe stato recato ai poveri mediante la liberazione da ogni genere di male del corpo e dello spirito, non esclusa la morte.
Luca riporta questi due miracoli: il racconto della guarigione del servo del centurione e la risurrezione del figlio della vedova di Naim, dopo le beatitudini e il comandamento dell'amore.
I primi protagonisti: il centurione, alcuni anziani dei giudei. Il Centurione è un pagano, appartiene alla categoria dei peccatori. Tuttavia è descritto buono verso i giudei e i subalterni. È ben disposto ad accogliere la salvezza, come il centurione di Atti 10. Il suo servo, che considerava come un figlio, sta per morire, ha sentito parlare di Gesù e invia da Lui alcuni anziani dei giudei per chiedere di guarire il suo servo.
Luca ricalca le caratteristiche del centurione: sa essere vicino alla gente: “… ama il nostro popolo”. Va incontro ai loro bisogni: “… è stato lui a costruirci la sinagoga”. Ama i suoi dipendenti ed ha a cuore la sorte di un suo servo: “. Un uomo buono e pietoso, benvoluto da tutti …
Il Maestro, che ha appena rivolto il suo annuncio di salvezza ai poveri e parole tanto impegnative ai discepoli, rivela ora "l’efficacia della sua parola” per chi l’accoglie con fiducia e umiltà.
Il centurione, vedendo la disponibilità del maestro, fa inaspettatamente una professione di fede alla maniera militare: “…ho sotto di me dei soldati, dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa”. Il centurione voleva giustificare il proprio rispetto verso Gesù col suo spirito militare.
Luca esalta la fede di un pagano nell’efficacia della parola di Cristo. Ancora oggi tutti noi cristiani usiamo le stesse parole del centurione durante la comunione eucaristica: “… ma di’ soltanto una parola… “. Tutto l’interesse del racconto è concentrato nel dialogo tra Gesù e gli inviati del centurione pagano e culmina nella proclamazione di Gesù: “Vi dichiaro che una tale fede non l’ho trovata neppure in Israele”.
Se la parola di Gesù è un seme, la fede è il terreno che lo accoglie e su cui cresce la pianta. Senza la fede la potenza del seme resta improduttiva.
Non basta conoscere le Scritture, osservare la legge e invocare "Signore, Signore", bisogna praticare le opere con amore e semplicità di mente e di cuore.
Anche il brano della vedova di Naim mette a fuoco un gesto di misericordia e d’amore, simmetrico a quello del servo del centurione a Cafarnao. I protagonisti sono la madre vedova e il suo giovane figlio morto, che viene portato alla sepoltura nello stesso istante in cui Gesù sta per entrare in Nain.
Il fatto era particolarmente pietoso, forse ciò spiega anche perché c’era molta folla della città insieme con la vedova: certamente tutti nel borgo avevano saputo della disgrazia e volevano partecipare al dolore di quella mamma che aveva perduto il suo unico figlio. L’attenzione di Gesù è per la mamma; la sua partecipazione al dolore è immediata.
Non piangere! Queste parole chissà quante volte erano dette e ripetute in quella giornata alla povera donna, ma restavano soltanto parole. Gesù, però, va oltre. L’ordine di non piangere anche se in questa circostanza pare paradossale, è una promessa.
Il dono che segue non è né sperato, né chiesto, né atteso. E' pura iniziativa del Signore. Le sue viscere di misericordia lo portano alla com-passione, a patire con chi soffre.
La risurrezione del figlio della vedova di Naim evidenzia la misericordia di Gesù che va al di là di ogni aspettativa. Dio previene e visita, senza richiesta, preghiera o fede, chi è totalmente perduto e non può più chiedere, né pregare, né credere.
"E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: <<giovinetto, dico="" a="" te:="" alzati!="">> Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare; ed Egli lo diede alla madre".
La folla ha una reazione di meraviglia e riconosce l’azione potente e salvifica di Dio: “Davano gloria a Dio”. E nell’esclamazione finale, “Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo”, Luca ci offre la chiave d’interpretazione dei due episodi. "Dio ha visitato il suo popolo".
Com’è la mia fede nella Parola e nelle sue mediazioni umane?
Credo che questa parola può sempre operare con potenza anche oggi!

Luca 7,36-50

 

Gesù e la peccatrice 

di Salvatore Tosto


L’evangelista Luca è il solo a tramandarci il ricordo delle buone relazioni tra Gesù e i farisei che lo invitano a pranzo (cf.11,37 e 14,1); sono anch’essi figli di Israele da istruire. In questo episodio emerge l’insegnamento sulla misericordia e il perdono di Dio, del pentimento che scatena amore. Il fariseo invita Gesù a pranzo non a cena; il pranzo non è il pasto principale, è veloce non impegnativo, non consente dialogo e coinvolgimento come la cena. Ed ecco, una donna, appare all’improvviso nella scena del racconto, contravvenendo ad ogni regola della tradizione che impedisce alle donne di stare insieme agli uomini, furtivamente si accosta ai piedi di Gesù, lei donna e peccatrice, non temendo di contaminare quell’uomo verso il quale nutre una profonda fiducia. La fiducia che questa donna pone in Gesù le dà il coraggio di entrare in quella casa, pur cercando di non farsi notare; infatti se ne sta dietro, raggomitolata sotto il tavolo, in una posizione molto scomoda, pochissimo dignitosa, come un cane. Ha tentato di non farsi vedere, ma viene notata ugualmente dal fariseo che ha ospitato Gesù, creandogli un forte imbarazzo. Infatti non sa come reagire, pensa di fare cattiva figura con l’ospite, ma nello stesso tempo pensa male di Gesù, perché se fosse un profeta quella donna l’avrebbe allontanata; pensa che Gesù non è quello che lui si aspettava, poiché a lui si è rivolta. Gesù, però, gli legge il pensiero e lo chiama per nome, stupendolo; aveva appena pensato ad una critica di disprezzo ed invece risponde chiamandolo <<maestro, dì="" pure="">>. Dal pensiero critico il fariseo Simone passa alla disponibilità, all’ascolto, chiamandolo Maestro, riconoscendogli, quindi, autorevolezza. Pensa una cosa e di fatto ne dice un’altra. Ma la parabola del creditore e dei due debitori che Gesù racconta porta allo scoperto Simone: deve esprimere un giudizio, una sua valutazione sul comportamento dei due debitori. Si parla di debiti e di amore. Lui ha giudicato, ha valutato sia la donna disprezzandola, sia Gesù che la tollerava. Lui si ritiene un buon osservante, più religioso, ma è freddo, distaccato, non si coinvolge, si mantiene fuori, convinto di essere migliore degli altri. Pur avendolo invitato, con Gesù non instaura una relazione di amicizia: non gli dà l’acqua per i piedi, cioè non è disposto a servirlo; non lo ha baciato, cioè non è disposto all’incontro fisico di affetto, di coinvolgimento; non gli ha reso onore, cioè non è disposto a spendere per il suo ospite. Al contrario quella donna, che Simone ha giudicato peccatrice, si è gettata ai piedi di Gesù. Perché questa donna compie quel gesto? Per compiere un gesto di umiliazione così grande deve avere una grande stima di Gesù. Stima che il fariseo non dimostra. Cosa ha conosciuto di Gesù? Non chiede nulla, ma piange, e piange talmente tanto, da bagnargli i piedi e lavarli con le lacrime. Piange per i suoi “molti” peccati. E’ sicuramente un pianto di dolore per il suo errato comportamento. Piange perché in questo momento ha capito di avere sbagliato, di essere “fallita”, di non aver colpito il bersaglio. Gesù è lì per i fatti suoi, invitato a pranzo dal fariseo; non è andato lui a cercare questa donna, ma è stata lei ad entrare lì per compiere quel gesto di grande umiliazione, niente affatto dignitosa, che coinvolge l’intera persona. Pur manifestando poca finezza, nessuna formalità, lei sì, ha compiuto tre gesti importantissimi di accoglienza, di amicizia, di affetto che comportano una relazione autentica, un coinvolgimento personale: ha versato l’acqua del suo dolore, le lacrime, per bagnare i piedi di Gesù; lo ha baciato, non sulla guancia, ma gli ha baciato i piedi, mentre li asciugava con i suoi capelli; il profumo, costosissimo, non glielo ha offerto o versato sul capo, ma glielo ha cosparso sui piedi. Quindi, traducendo, possiamo dire che ha riservato a Gesù onore, gloria e servizio. In una sola parola: Amore. Gesù sa che ha molti peccati, ma le sono perdonati perché “ha molto amato”. Con questa espressione, Gesù non fa riferimento al passato di questa donna, ma al suo atteggiamento di adesso, di questo suo grande amore, e quindi viene perdonata. La donna ha riconosciuto in Lui uno che può salvarla e, con un gesto quasi di disperazione, si aggrappa ai suoi piedi. E’ una vera e propria supplica. Qui c’è un amore grande che spinge al perdono.

Luca 6,36-49

 

Amore fraterno, la pagliuzza e la trave, l'albero e la casa sulla roccia 

 

di Antonio Leotta

 Il contesto è quello del discorso sulle beatitudini. È uno dei discorsi in cui Gesù riformula la legge dei profeti, portandola a compimento, perfezionandola.

Il riferimento di ogni relazione umana è fissato da Gesù in Dio Padre misericordioso, la cui misericordia è espressione del Suo essere perfetto (Mt 5, 48). L’avere a cuore la miseria dell’altro è una attitudine di chi vuole colmare quella miseria, rispettando la libertà del povero di collaborare per aspirare alla perfezione, alla santità. Questa libertà del povero sta nell’accettare o meno la Parola del Padre.
Ne seguono dei comandamenti. I primi due in negativo, non giudicate e non condannate. Gli altri due in positivo: perdonate e date.
Se non si giudica e se non si condanna, non si verrà né giudicati né condannati. Giudicare e condannare sono atteggiamenti che presumono una posizione di superiorità di chi li assume rispetto al prossimo, che invece è pari a lui, essendo il proprio fratello. Questa posizione di superiorità equivale a mettersi al posto di Dio Padre, pretendendo di riuscire a vedere il cuore del proprio fratello. È, quindi, un atteggiamento di arroganza e di prepotenza giudicato e condannato dal Padre, il solo che può scrutare i cuori. Per questo non giudicate e non verrete giudicati. Non condannate e non verrete condannati.
Se, poi, si perdona e si dona si va oltre ogni misura, assaporando il senso di infinito. Perdonare e donare sono due verbi collegati che consentono in chi li pratica di superare ogni misura in più sensi. Intanto perché non esiste un limite, a volte, in cui perdonare, e anche perché non esiste una misura per l’offesa da perdonare. Ma se il perdono presume una offesa ricevuta, il dono presume la sola libertà del donatore di donare al fratello ciò che lui ha già ricevuto in dono dal Padre. Dimenticare la misura è andare oltre i vincoli del materiale, perché ciò che è spirituale non ha misura ed è quello che ci viene dato in cambio dal Padre, unica origine del nostro Spirito.
La parabola del cieco che guida un altro cieco e la metafora della pagliuzza e della trave sono espressioni con cui Gesù contrappone la presunzione e l’ipocrisia alla misericordia. L’essere misericordioso del Padre viene reso da Luca con un termine che letteralmente vuol dire uterino, e giustifica così un noto Angelus di Papa Giovanni Paolo I, dove Dio viene appellato anche come Madre. La condivisione di questo amore materno è ciò che dovrebbe regolare le relazioni tra fratelli.
Come esito della vita di un seme che muore nella terra per risorgere alla luce, l’albero, come l’uomo, si erge verso il cielo, cui tende. I suoi frutti sono della stessa natura del suo cuore. Per questo chi solo ascolta la Parola, ma non la mette in pratica, è simile a un uomo che, costruendo una casa sulla terra, non ne crea le fondamenta e questa sarà distrutta dal fiume in piena. L’uomo che invece mette in pratica la Parola è come chi costruisce una casa, creando le fondamenta. La Parola del Padre è la casa dove l’uomo si rifugia. Mettere in pratica la Parola significa scavare le fondamenta per portarla nella propria vita, per abitarla. Luca sottolinea lo sforzo del costruttore per esprimere la necessità richiesta da Gesù di far seguire all’ascolto della Parola un comportamento conseguente. Ma se il comportamento richiesto è essere misericordiosi come il Padre, allora si tratta di un’azione del cuore che si pone sul piano interiore, quello dell’essere.
Difficilmente sono riuscito ad avere a cuore la miseria di mio fratello. Specie quando da quella miseria sono scaturite delle offese. Ho mancato spesso nella voglia di giustificare quelle offese, tendendo invece a giudicare e condannare lo stesso fratello che me le aveva rese, considerando la sua persona come oggetto di giudizio e di condanna. Il frutto che è maturato in me non è venuto dalle offese del fratello, ma dal lievito del mio stesso atteggiamento di giudizio e di condanna. Per propormi di avere più a cuore la miseria di mio fratello voglio ricordarmi ogni giorno come il Padre ha a cuore la mia.

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