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Mt 26,57-27,26

 

Dal Sinedrio a Pilato

 

di Giuseppina Gianforti

 

Si avvicina la Pasqua. Gesù va verso la morte. Si reca a Gerusalemme. D’ora in avanti Egli si esprimerà con brevi dialoghi e soprattutto con gesti. Non parlerà più ma agirà.

“C’è il tempo di parlare e il tempo di tacere” leggiamo nell’Antico Testamento (Qoelet 3,7). Il tempo di parlare è passato e Gesù davanti ai giudici tacerà. È arrivato il tempo del compimento dell’opera messianica e, quindi, di immolare la sua vita. “Per portare frutto, il seme deve cadere in terra e morire” (Gv. 12,24). Egli ha consapevolezza di ciò che accadrà “… non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto di molti”.

Colui che aveva giudicato il mondo, adesso è giudicato dagli uomini.

 Nella notte si era radunato il Sinedrio, la massima autorità, il supremo tribunale presieduto dal Sommo Sacerdote Caifa. Fanno parte di questo Consiglio gli esperti della Legge (gli Scribi), gli anziani (rappresentanti della nobiltà laica), i gran sacerdoti. Tali membri di comune accordo deliberano il complotto per condannare Gesù, ma vogliono agire con cautela, per non scatenare una sommossa popolare. Ogni processo che si rispetti ha bisogno di testimonianze ed ecco la ricerca affannosa di esse. Bisogna far presto. Ne vengono presentate alcune, forse erano già pronte per arrivare subito alla sentenza. Due testimoni riferiscono che Gesù ha detto di  “potere riedificare il tempio di Dio in tre giorni”. Tale affermazione sarebbe stata sufficiente per la sentenza di condanna. La deposizione dei due testimoni conferma che Gesù ha il “potere” di riedificare il Tempio e quindi che Egli è il Messia. Il Sommo Sacerdote invita Gesù a difendersi, ma Egli tace. Come farà dopo anche dinanzi a Pilato.

Nel silenzio di Gesù il Sommo Sacerdote coglie la conferma alla pretesa messianica. Allora interviene con forza e pone la domanda se Gesù sia veramente il Messia. Invoca il nome Santo di Dio e scongiura l’accusato di dire la verità. (Il Messia era ritenuto Figlio di Dio – Attributo che era stato messo in dubbio dal diavolo nel deserto (cf. Mt 4,3-6), ma affermato da Pietro (Mt.16,16).

La risposta di Gesù è espressa in maniera particolare. Egli conferma con l’espressione “Tu l’hai detto” che vuol significare “si”.

 Prima di adesso Gesù non aveva mai svelato pubblicamente il suo mistero. Solo ora lo conferma apertamente e ai suoi giudici.

Vi aggiunge, inoltre, l’affermazione “… d’ora in poi vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della  potenza di Dio e venire sopra le nubi del cielo”.  Tutto ciò a indicare il Messia escatologico che siederà alla destra della “Potenza”, cioè di Dio e che verrà come giudice “sulle nubi del cielo”.  In questa osservazione vi si scorgono due passi della Scrittura ( Cf.  Sal. 110,1; Dan. 7,13). Coloro che al momento lo giudicano, saranno da Lui giudicati.

Le parole di Gesù sono interpretate come “bestemmie” contro Dio. Per questo il Sommo Sacerdote si strappa le vesti e chiede la condanna a morte. Il processo ha tutto il sapore di uno scontro tra il Bene e il Male, tra il mondo di Dio e quello di Satana.

Gesù porterà sul Golgota nella sua persona tutto il peccato dell’umanità. “Colui che non conobbe peccato, Dio lo ha reso  peccato per noi (2 Cor. 5,21).

Essendo la Palestina provincia romana, la sentenza di morte del Gran Consiglio (massima autorità religiosa) deve essere convalidata dalla massima autorità politica: il governatore romano. Anche Pilato interroga Gesù sul suo essere “re dei giudei”, ma senza ottenere risposte esaustive: un semplice “Si”. Davanti al Sinedrio Gesù aveva confermato di essere “Messia” e davanti al governatore di essere “Re”; ma sia il suo essere “Messia” che il suo essere “Re” non potevano essere compresi dagli interlocutori: diversi i punti di vista.

La scena centrale del processo che si svolge dinanzi a Pilato, non avviene in un tribunale, ma davanti al popolo che a gran voce invoca “il sangue di Gesù su di sé e i suoi figli”. Parole che a noi suonano pesanti come una vendetta, ma che nel Vecchio Testamento stavano ad indicare la responsabilità dell’azione; quindi non una automaledizione, ma una pronuncia di sentenza.

Gesù nei giorni del processo e della sua passione ha sperimentato tutto il “male” di questo mondo: la solitudine, il dolore, l’abbandono.

Mentre Egli prega e suda sangue i suoi discepoli dormono. Quando uno di loro lo tradisce per trenta denari (il prezzo di uno schiavo) ed è circondato da soldati irriverenti e violenti, nessuno dei suoi è con Lui, neanche Pietro che aveva giurato che l’avrebbe seguito, anzi in una sola notte lo rinnega due volte. Viene schernito, beffeggiato, deriso, flagellato e i suoi amici giurano di non conoscerlo. La sua sorte viene barattata con quella di un malfattore delinquente. Agonizza tra due ladroni. Ma il “male” più profondo lo sperimenta con l’abbandono del Padre …. “Padre, Padre, perché mi hai abbandonato?”…

Il Figlio di Dio, Egli il Salvatore del mondo, sperimenta l’assenza di Dio, cioè l’effetto del peccato. Anche il Padre e lo Spirito Santo sperimentano il distacco dal Figlio: Loro sempre eternamente uniti sperimentano l’abbandono, il distacco per amore dell’Umanità. Tutto ciò affinché le Scritture si adempissero e l’Alleanza tra l’Umanità e il suo Creatore si ripristinasse.

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