• facebook2
  • youtube2

Mt 25,31-46

 

Venite benedetti del Padre mio

 

 

 

di Manuel Tuttolomondo

 

Lo scenario di questa parabola è rappresentato dalla raffigurazione del Figlio dell’uomo come re, pastore e giudice al tempo stesso. infatti Egli verrà nelle vesti e con la gloria di un re, raccoglierà tutti gli uomini e darà inizio alla fase del giudizio: e lo farà allo stesso modo con cui il pastore separa le pecore dalle capre. L’associazione tra i termini re e pastore non è affatto fuori luogo, poiché ad un sovrano spettava anche e soprattutto il compito pastorale. Già in Ez 34,17 troviamo la figura di un Dio pastore e giudice al tempo stesso; “Ecco io vi giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.” Quindi Egli radunerà l’umanità intera e la separerà in due gruppi, proprio come un pastore divide il suo gregge ogni notte.

Il Figlio dell’uomo si concentra in primis sulle pecore che pone alla sua destra; già solo essere alla sua destra indica una posizione privilegiata. Successivamente Egli rivolge una sorta di “invito” proprio ad essi, “venite”, che qui richiama molto l’invito che il padrone rivolge ai servi che hanno fatto moltiplicare i loro talenti. Li chiama addirittura “benedetti del Padre mio” e offre loro in eredità il più grande tra i doni che si possono chiedere: il Regno. Ma questa concessione benevola è strettamente collegata alle azioni e all’accoglienza che queste “pecore” hanno avuto nei confronti del Cristo; nell’avergli dato cibo, acqua, vestiti, ospitalità, vicinanza, conforto. Ciò desta la sorpresa delle stesse pecore che si chiedono quando mai abbiano visto il Cristo in queste difficoltà e lo hanno aiutato. Ma subito il Re elenca tutte le situazioni e le azioni da loro compiute che hanno procurato sollievo materiale e spirituale ai fratelli e alle sorelle in tutte le situazioni di difficoltà; i giusti si sono “spesi”, si sono adoperati spendendo anche parte delle loro energie e risorse per dare felicità e conforto ad un loro prossimo. E il Re scioglie i loro dubbi quando si identifica Egli stesso nei fratelli e nelle sorelle che hanno aiutato. Il Cristo mostra così che l’amore cristiano non è fatto solo di parole, ma è fatto per la maggior parte da gesti che invitano a prendersi cura del prossimo. E amare il prossimo vuol dire amare Dio.

Dopo il discorso alle pecore benevole il Re si rivolge alle capre poste alla sua sinistra, e non utilizza più l’invito a “venire” verso di lui, anzi le allontana da sé: “Andatevene da me” e addirittura le maledice e le getta nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi seguaci. Le capre non sono sue, non gli appartengono più, poiché esse hanno deciso di seguire una strada diversa dal bene. Questo linguaggio molto forte esprime la gravità di coloro che non si lasciano raggiungere dal grido di Cristo, presente nel fratello più bisognoso e disagiato. Non esiste un vero incontro con Cristo se non si serve il fratello bisognoso. E qui il Re elenca anche alle capre tutti gli episodi in cui non sono state benevoli con il loro prossimo e si immedesima nuovamente Egli stesso nel più piccolo di questo prossimo.

Il brano si conclude con gli ultimi lapidari versetti che determinano la ricompensa e la pena che hanno ricevuto i primi e devono subire i secondi. Solo chi vive come Cristo, ossia compassionevolmente, può godere della vita eterna. Chi invece si chiude e fa finta di niente di fronte al dolore e alla sofferenza del prossimo non ne può godere e anzi per costui le conseguenze sono dolorose: lo attende il castigo eterno. La vita eterna, invece, è il destino per coloro i quali non si sono fermati alla sola osservanza della legge, ma si sono consacrati all’accoglienza dei fratelli e delle sorelle e al comandamento dell’amore “ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22, 36-40) che dà senso a tutti i precetti.

Top