• facebook2
  • youtube2

Mt 21,28-22,14

 

Il Regno di Dio non è questione di calcoli, né di razza

 

 

di Marina Rando

 

 

Troviamo qui tre parabole che Gesù espone all’interno del tempio di Gerusalemme, santuario ufficiale della relazione di Israele con Dio. Al centro delle prime due parabole risuona la simbologia della vigna (cfr.20,1-16); la terza parabola fa riferimento invece a un banchetto di nozze. Entrambe le immagini, vigna e banchetto, richiamano la storia d’amore che Dio intesse con l’umanità (cfr. Is5,1-7; 25,6-10a); un Dio che cerca l’uomo, che gli va incontro perché desidera parlare al suo cuore, lo ama, lo cura, lo circonda di mille attenzioni e poi lo aspetta, aspetta che ogni uomo, vinto dal fascino del Suo amore gratuito, si volga a Lui. Eppure, l’atteggiamento benevolo e premuroso del Dio fedele si scontra con il continuo rifiuto dell’uomo infedele.

È ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo che Gesù in particolare rivolge le sue parole (21,23), quei gerarchi d’Israele che lo stanno osteggiando in tutti i modi e che, a un’autentica adesione di cuore all’Alleanza, hanno sostituito un formalismo senz’anima e una ritualità vuota, senza coerenza di vita. È proprio questo atteggiamento che Gesù denuncia con la prima parabola, quella dei due figli: non basta dire sì a Dio, bisogna che alle parole seguano poi i fatti, le scelte concrete dell’esistenza (Non chiunque mi dice “Signore, Signore” … ma chi fa la volontà del Padre). Ed è sorprendente che proprio dal centro cultuale e religioso d’Israele Gesù dichiari provocatoriamente la superiorità di coloro che dal culto erano esclusi, perché ritenuti impuri. Solo il cuore di chi si riconosce peccatore è un cuore disposto a lasciarsi trasformare dalla grazia.

Anche la seconda parabola ci parla di una vigna, ma i risvolti sono molto più drammatici. L’evangelista insiste spesso sulla necessità, nella relazione con Dio, di produrre frutti (3,8.10; 7,16-20; 12,33; 13,8.23; 21,41.43); i contadini cui è stata affidata la vigna, però, non solo non rendono i frutti richiesti, ma maltrattano e addirittura uccidono i servi loro inviati per ritirare il raccolto. Con una fiducia quasi caparbia, sicuramente azzardata, il padrone invia altri servi e, quando questi ricevono la stessa sorte dei primi, manda il proprio figlio, nel tentativo estremo di ripristinare la pace. Ma alla logica di folle gratuità del padrone, i contadini rispondono con una violenza inaudita e, per impossessarsi dell’eredità, uccidono anche il figlio, fuori dalla vigna. Con la citazione del salmo 118, Gesù interpreta la parabola alla luce della propria vicenda pasquale: la morte del Figlio non è la fine della storia, ma principio di vita nuova per quanti sapranno accogliere la signoria di Dio attraverso ciò che agli occhi del mondo è scandalo e stoltezza (1Cor1,23). Il rifiuto dell’uomo non può provocare il fallimento del piano di Dio; il progetto di salvezza va avanti per altre vie, inedite e sorprendenti. E come la vigna della seconda parabola sarà affidata ad altri contadini, così l’invito a nozze della terza parabola, declinato dai primi invitati che hanno preferito anteporvi i propri interessi personali, si estenderà ai crocicchi delle strade, nel cuore della diversità umana. È una festa quella alla quale Dio chiama l’umanità, una festa di intimità gioiosa e di pienezza sovrabbondante; il Re della parabola manifesta chiaramente il suo amore nella condivisione del banchetto, eppure il suo invito non trova spazio, quasi fosse un ingombrante elemento di disturbo. Ancora una volta, la reazione di indifferenza o, addirittura, di violenza degli invitati sembra procedere in misura direttamente proporzionale all’attenzione e alla sollecitudine premurosa, direi testarda, di Colui che invita. E, ancora una volta, la scelta non è tra Dio e qualcos’altro, ma tra Dio e se stessi, come se l’affrancarsi da Lui potesse costituire la realizzazione piena della libertà umana e non piuttosto, come la storia sta ampiamente a dimostrare, la cieca prevaricazione dell’uomo sull’uomo e lo svilimento della dignità umana.

Accettare l’invito, però, non basta; occorre sempre fare frutto, tradotto in questo caso con il simbolo della veste nuziale. Accogliere l’invito implica l’adesione totale, non solo di facciata, alla proposta di vita che ci viene rivolta, prenderla sul serio, lasciando che il Signore operi in noi e trasformi il cuore impietrito, incirconciso, ammutolito, in un cuore di carne, docile e ascoltante (1Re 3,9).

Top